Corte di Cassazione, Sez. II civ., 16 aprile 2018, n. 9282

Corte di Cassazione, Sez. II civ., 16 aprile 2018, n. 9282

MASSIMA
Corte di Cassazione, Sez. II civ., 16 aprile 2018, n. 9282
L’individuazione della natura di una cappella funeraria come sepolcro familiare o gentilizio, e non ereditario (pur autonomo e distinto rispetto al diritto reale sul manufatto), comporta che esso sia sottratto a possibilità di divisione, non rientrando, a differenza del sepolcro ereditario, tra i beni afferenti l’asse ereditario.

NORME CORRELATE

Art. 93 dPR 10/9/1990, n. 285

Corte di Cassazione
Civile Sent. Sez. 2 Num. 9282 Anno 2018
Presidente: MATERA LINA
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 16/04/2018
SENTENZA
sul ricorso 18830-2015 proposto da:
C. GIUSEPPINA, G. FABRIZIO PIERLUIGI, elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE LIEGI 58, presso lo studio dell’avvocato ROMANO CERQUETTI, rappresentati e difesi daIl’avvocato  SANTI GIOACCHINO GERACI;
– ricorrenti –
S. C. ANTONIETTA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VAL DI LANZO 79, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE IACONO QUARANTINO, che la rappresenta e difende;
D. S. LIBORIO, difensore se stesso ex art. 86 c.p.c.;
– controricorrenti –
nonché sul ricorso proposto da D. S. LIBORIO, difensore se stesso ex art. 86 c.p.c.;
– ricorrente incidentale –
contro C. GIUSEPPINA, G. FABRIZIO PIERLUIGI, S. C. ANTONIETTA; –
– intimati –
nonché sul ricorso proposto da S. C. ANTONIETTA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VAL DI LANZO 79, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE IACONO QUARANTINO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente incidentale –
contro C. GIUSEPPINA, G. FABRIZIO PIERLUIGI, D. S. LIBORIO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 634/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 28/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, il quale ha concluso per il rigetto dei ricorsi principale incidentali;
uditi gli Avvocati Geracia, D. S. e Iacono.
FATTI DI CAUSA
Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. hanno proposto ricorso in cassazione articolato in cinque motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo n. 634/2015, depositata il 28 aprile 2015.
Al ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. resistono l’avvocato D. S. Liborio, il quale ha altresì avanzato ricorso incidentale a sua volta strutturato in sei motivi, ed Antonietta S. C., la quale ha proposto ricorso incidentale in unico motivo.
La vicenda per cui è lite trae origine da un precedente giudizio, derivante dalla citazione notificata il 15 aprile 1961 da Michelangelo C., che convenne davanti al Tribunale di Termini Imerese i propri fratelli Ignazio, Adele, Antonina, Giuseppina e il protutore del fratello interdetto Antonino, nonché la madre Giuseppina C. M., per procedere alla formazione e divisione, secondo le norme della successione legittima, della massa ereditaria proveniente da Nicolò C., deceduto il 19 agosto 1948, rispettivamente padre e coniuge delle parti. Il convenuto Ignazio C. dedusse che la successione dovesse basarsi sul testamento olografo redatto il 18 gennaio 1948 da Nicolò C., mentre il tutore dell’interdetto Antonino C. produsse scrittura privata del 29 aprile 1950, adducendo che in essa era stata transattivamente predisposta e regolata la ripartizione dei beni ereditari, chiedendo che la divisione avesse luogo secondo le disposizioni ivi contenute. Il Tribunale di Termini Imerese con sentenza non definitiva dichiarò aperta la successione di Nicolò C. e dispose la divisione sulla base della scrittura privata del 29 aprile 1950. Sull’appello di Ignazio C., la Corte di Appello di Palermo confermò la pronuncia di primo grado, qualificando la scrittura privata quale transazione divisoria e divisione transattiva. Proposto ricorso in cassazione, la Suprema Corte, con sentenza del 2 aprile 1969, n. 1080, confermò la pronuncia di secondo grado. Il processo davanti al Tribunale di Termini Imerese, dopo la sospensione disposta in pendenza delle impugnazioni sulla sentenza non definitiva, non venne tuttavia tempestivamente riassunto e così si estinse. Nacquero di seguito due giudizi, entrambi intrapresi ancora da Michelangelo C.: quest’ultimo citò dapprima la madre Giuseppina M. e i fratelli Ignazio, Adele, Antonina, Giuseppina, nonché il tutore del fratello interdetto Antonino, sempre per ottenere lo scioglimento della comunione ordinaria di Nicolò C., secondo quanto stabilito nel vincolante giudicato della Corte di cassazione; poi Michelangelo C. convenne i fratelli per ottenere la divisione dei beni lasciati dallo zio Leonardo C., deceduto l’11 gennaio 1939, nonché lo scioglimento della comunione ordinaria di alcuni beni in comproprietà tra gli stessi. I due procedimenti vennero riuniti, e la causa, dopo essere stata più volte interrotta per la morte di tutte le originarie parti del giudizio, proseguì per riassunzione operata da Luigi Fabrizio G. e Giuseppina C., eredi di Lina T., a sua volte erede universale dell’originario attore Michelangelo C., nei confronti di Antonietta S. C., erede degli originari convenuti Adele e Ignazio C., nonché di Liborio D. S., erede di Giuseppina C.
Con sentenza del 30 novembre 2010 il Tribunale di Termini Imerese dispose lo scioglimento della comunione ereditaria dei beni già appartenenti a Nicolò C., individuando le singole quote spettanti a ciascuna delle parti e procedendo all’attribuzione dei beni ereditari ed alla determinazione dei relativi conguagli, secondo quanto indicato nelle c.t.u. espletate; dichiarò inoltre, aperta la successione di Leonardo C., da regolare in base a testamento pubblico, procedendo alla divisione dei beni ereditari secondo l’individuazione dei lotti indicati nella c.t.u. da assegnare tramite sorteggio; ordinò ancora lo scioglimento della comunione ordinaria dei beni già in proprietà dei fratelli C. in forza di atti di acquisto inter vivos; statuì l’attribuzione in favore di Antonietta S. C. delle quote spettanti a Ignazio, Antonina e Adele; condannò la stessa Antonietta S. C. a corrispondere a Liborio D. S., Luigi Fabrizio G. e Giuseppina C. la quota loro spettante per i frutti ricavati dagli immobili.
Proposero appelli Liborio D. S., Fabrizio Luigi G., Giuseppina C. e Antonietta S. C. La Corte di Appello di Palermo, dopo aver richiesto chiarimenti ai consulenti tecnici in ordine ai rilievi mossi dalle parti sul valore dei beni, ed ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi degli originari convenuti Giuseppina M. C. e Antonino C., rispettivamente madre e fratello interdetto dei condividenti, con la sentenza del 28 aprile 2015 riformò parzialmente la pronuncia di primo grado relativamente alle porzioni da attribuire alle originarie condividenti C. Giuseppina e C. Adele, nei termini di cui alle pagine 19 e 20 della relazione di c.t.u. depositata in data 4 novembre 2013, e condannò Antonietta S. C., per i frutti percepiti dagli immobili, al pagamento della somma di €  10.692,00, oltre interessi, in favore di ciascuno dei condivìdenti Fabrizio Luigi G., Giuseppina C. e Liborio D. S., in luogo dell’importo di € 107.317,41 quantificato dal primo giudice. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I. Il primo motivo del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1 c.c., in quanto la Corte d’Appello di Palermo avrebbe disapplicato del tutto i criteri divisionali e transattivi contenuti nella scrittura del 29 aprile 1950 ed ormai coperti dalla forza del giudicato, omettendo di interpretare quella convenzione in base alla reale volontà delle parti, con specifico riguardo alla valutazione del fondo V., operata dai giudici d’appello “alla stregua di tutti gli altri beni”, ovvero “per adozione”, mentre l’accordo aveva stabilito che tale fondo, già intestato a Michelangelo C., dovesse rientrare nella massa ereditaria “nella sua consistenza attuale”, e cioè conferendone il corrispondente valore all’epoca dell’accordo. Il secondo motivo di ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1363 c.c., essendo palese dal raffronto delle clausole della scrittura privata, a dire dei ricorrenti, che le parti intesero regolare il fondo V. in maniera differente rispetto al resto dell’asse da dividere, in quanto il conferimento in valore di tale bene fu frutto di un accordo transattivo. Con il terzo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 2, c.c., in quanto la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto del comportamento delle parti successivo all’accordo transattivo (si  fa riferimento ad un atto inviato il 23 giugno 1961 da Ignazio C.), comportamento dal quale emergerebbe parimenti che l’intento dei contraenti nella scrittura del 29 aprile 1950 era quello di attribuire al fondo V. il valore che esso aveva al momento di quell’accordo, presumibilmente coincidente al valore dello stesso all’epoca dell’apertura della successione, sempre perché tale fondo venne incluso nella massa ereditaria fittiziamente.
Con il quarto motivo di ricorso Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 747 c.c., avendo i ricorrenti comunque domandato in via subordinata di fare quanto meno applicazione dell’art. 747 c.c., così imputando il valore del fondo V. al momento dell’apertura della successione, visto che Michelangelo C. aveva acquistato quel fondo con somme donategli dal padre e che perciò si trattava di una donazione indiretta.
Il quinto motivo del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., avendo la Corte d’Appello illegittimamente accolto l’appello incidentale di Antonietta S. C. e così ridotto la condanna della stessa a rimborsare agli altri condividenti i frutti per il possesso di alcuni beni immobili, ritenendo che fosse legittimo il possesso esclusivo che Antonietta S. C. e i suoi danti causa avevano avuto degli immobili loro attribuiti a titolo transattivo dalla scrittura del 29 aprile 1950. Sottolineano i ricorrenti principali che le attribuzioni dei beni per quota ai condividenti nella scrittura del 1950 era stata fatta con verbi coniugati al futuro, senza quindi attribuire alcun possesso attuale, occorrendo comunque un atto pubblico di divisione o una sentenza per assegnare la titolarità a ciascuno delle singole porzioni immobiliari.
I.1. I primi quattro motivi del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. possono essere esaminati congiuntamente, in quanto sono tutti relativi a profili di interpretazione della scrittura del 29 aprile 1950 e di valutazione del fondo V. in sede di divisione. Al riguardo, la Corte d’Appello di Palermo ha ritenuto applicabile anche a tale bene il generale criterio di riferimento del valore al momento dello scioglimento della comunione.
I primi quattro motivi del ricorso principale si rivelano infondati.
La Corte di Palermo ha premesso una qualificazione della scrittura del 29 aprile 1950 come transazione tra i coeredi di Nicolò C., in previsione della futura stipula di un atto di divisione, con individuazione di alcuni criteri per la formazione della massa e delle singole quote. Nel compendio furono così compresi anche alcuni immobili donati in vita da de cuius o da lui intestati ai figli (fra cui appunto il fondo V.). Fu quindi convenuto il prelievo di altri beni ereditari dalla massa oggetto dell’accordo divisorio (ad esempio, le otto salme di terreno dal fondo G. in favore di Ignazio C.). I contraenti stabilirono inoltre che la divisione sarebbe stata fatta “per adozione”, incaricando un consulente tecnico per la valutazione dei beni e la formazione delle quote. A dire della Corte d’Appello, pertanto, la scrittura del 1950 non era idonea a comportare l’immediata divisione del patrimonio ereditario, né disciplinava tutti gli aspetti dello scioglimento della comunione, e perciò essa non poteva porsi quale unica fonte dei rapporti tra i condividenti. L’accordo del 1950, invero, comportava un prelievo dall’asse con attribuzione “extra quota” ad Ignazio e Antonina C. (di natura transattiva) e poi una ripartizione secondo quote della restante parte del compendio ereditario: da ciò la sentenza impugnata argomentò la natura transattiva e divisoria, ad un tempo, della scrittura del 29 aprile 1950. Dunque, affermarono i giudici di appello, anche i beni specificamente attribuiti ai coeredi, eccezion fatta per quelli oggetto del prelievo a vantaggio di Ignazio e Antonina C., rimanevano soggetti alla regola di eguaglianza delle porzioni. A proposito del fondo V., la sentenza della Corte d’Appello affermò che le vicende specifiche di tale bene – inserito nell’asse da dividere per espressa previsione delle parti ed alienato medio tempore – non deponessero per l’applicazione di un diverso criterio di valutazione.
Ora, va premesso che i primi quattro motivi del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. censurano errori nell’interpretazione della scrittura del 29 aprile 1950 fatta dalla Corte d’Appello, ma poi riducono la specifica indicazione e trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (agli effetti dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.) ai punti 2 e 4 dell’accordo, sicché solo entro tali limiti può dirsi investita questa Corte del controllo di legittimità sulla corretta applicazione delle regole ermeneutiche con riguardo a siffatta volontà pattizia, oggetto di accertamento preliminare alla qualificazione del contratto.
Nessuna delle censure contenute nel ricorso principale (tutte, come visto, articolate in forma di violazione delle disposizioni di legge in tema di interpretazione del contratto e in tema di collazione per imputazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) investe questa Corte, peraltro, di una denuncia di ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione conseguente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012 (qui applicabile ratione temporis), sicché l’operazione di accertamento della volontà dei contraenti nella scrittura del 29 aprile 1950, congruamente compiuta dal giudici di appello nell’ambito dell’apprezzamento di merito loro spettante, non è in discussione se non per la cattiva applicazione delle fattispecie astratte di legge che dai ricorrenti si assume perpetrata in riferimento alle disposizioni codicistiche richiamate.
Rimane allora accertato, sia in conseguenza delle questioni risolte da Cass. Sez. 2, 02/04/1969, n. 1080, sia dopo l’ulteriore ricostruzione del contenuto dell’accordo operata nella sentenza impugnata, che con il contratto del 29 aprile 1950 i coeredi di Nicolò C. posero in essere un atto complesso, contenente una convenzione integrante tanto una divisione transattiva che una transazione divisoria definitiva, con individuazione delle modalità di formazione delle quote, astrattamente determinate, e dei criteri tecnici di valutazione. Furono compresi nel patrimonio oggetto della divisione consensuale sia l beni appartenenti al defunto al tempo della morte, sia alcuni beni di cui quegli aveva disposto a titolo di donazione diretta o indiretta (non solo il fondo V., che era intestato a Michelangelo C., ma anche appartamenti siti nell’edificio di via Principe Scordia in Palermo e quanto donato a Giuseppina C. con atto del 16 ottobre 1939), e i contraenti stabilirono altresì che alcuni degli immobili compresi o riattribuiti nella massa ereditaria dovessero rientrare nelle quote da assegnare all’uno, piuttosto che all’altro, dei condividenti. Per la valutazione dei beni e la formazione delle quote, da recepire nel futuro atto definitivo di divisione, le parti della scrittura del 1950 si affidavano, infine, ad un consulente tecnico che avrebbero dovuto nominare.
Non essendo, in realtà, da decidere una questione attinente alla rescindibilità, o meno, o alla annullabilità per errore, della scrittura del 29 aprile 1950, non rivela particolare importanza neppure la qualificazione della stessa in termini di divisione transattiva, o di transazione divisoria, e ciò agli effetti degli artt. 764 e 1969 c.c., che qui, appunto, non vengono in gioco (cfr. Cass. Sez. 3, 03/08/2012, n. 13942; Cass. Sez. 2, 06/08/1997, n. 7219; Cass. Sez. 2, 02/02/1994, n. 1029).
Dunque, la scrittura del 29 aprile 1950 diede luogo ad un contratto divisorio in quanto era volta all’attribuzione di valori proporzionali alle quote, seppur non ancora costitutiva dell’effetto finale di scioglimento della comunione incidentale. Rimane accertato che le parti, con le espressioni usate nel negozio, non intesero affatto porre termine ad ogni disputa sulle stime (accollandosi l’alea reciproca di assegnare cespiti di valore inferiore alle rispettive quote), ma soltanto manifestarono l’intendimento di procedere alla divisione rimettendosi alle stime di un esperto di loro fiducia. Allo scopo di evitare o porre termine alle liti, i coeredi sottrassero dal compendio alcuni beni, concordandone un “prelievo”, mentre altri beni, che alcuni coeredi avevano ricevuto dal defunto per donazione, direttamente o indirettamente, furono oggetto di collazione in natura alla massa stessa.
La convenzione del 1950 intercorsa, dunque, nel corso dell’iter divisorio, si tradusse in un’intesa rivolta a prevenire o risolvere, mediante reciproche concessioni, soltanto alcune delle controversie sulla concreta determinazione delle porzioni, ma, facendo ancora difetto una stima del valore dei beni, essa non poteva affatto atteggiarsi quale nuova autonoma ed esclusiva fonte regolatrice del rapporto in luogo della preesistente comunione ereditaria (arg. da Cass. Sez. 2, 15/04/2009, n. 8946; Cass. Sez. 2, 03/09/1997, n. 8448; Cass. Sez. 2, 09/01/1984, n. 137; Cass. Sez. 2, 17/05/1972, n. 1496).
I giudici del merito hanno così accertato, mediante interpretazione della volontà negoziale, che la scrittura del 29 aprile 1950 non contenesse criteri pattizi di valutazione dei beni da dividere, ed hanno perciò fatto ricorso alla generale regola operante in tema di divisione ereditaria, secondo cui la stima di beni immobili per la formazione delle quote va compiuta con riferimento al valore venale da essi posseduto al tempo della divisione.
I ricorrenti Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C. contestano che tale generale criterio contrastasse, tuttavia, con la volontà dei contraenti in ordine alla valutazione del fondo V., già intestato a Michelangelo C., perché di esso era scritto che dovesse rientrare nella massa “nella sua consistenza attuale”, il che gli stessi ricorrenti intendono come rinvio al valore che il bene aveva all’epoca del contratto, al più suggerendo di far uso del criterio che l’art. 747 c.c. detta allorché un immobile donato dal <i>de cuius</i> venga conferito alla massa non rendendolo in natura (come nella specie in realtà avvenuto), ma, appunto, imputandone il solo valore al tempo dell’aperta successione.
I primi quattro motivi del ricorso principale non possono perciò accogliersi in quanto essenzialmente diretti ad indurre questa Corte a prescegliere una interpretazione “diversa” della espressione “nella sua consistenza attuale” adoperata nell’accordo del 29 aprile 1950 rispetto a quella apprezzata dal giudici di merito. La soluzione ermeneutica adottata nella  sentenza impugnata non è affatto contraria alle regole legali di interpretazione ex artt. 1362 e 1363 c.c., né, per di più, risulta contraria a logica o incongrua, neppure essendo necessaria che quella data dal giudice alla clausola negoziale in esame sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto. D’altro canto, il sostantivo “consistenza”, riferito ad un fondo, inteso nel suo senso letterale, non depone univocamente per il significato di “valore venale” del cespite, quanto semmai come richiamo alle dimensioni della superficie catastale netta dello stesso. Anche intesa l’espressione in esame come riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale e non già limitata ad una parte soltanto di essa, rimarrebbe inspiegabile – in difetto di un’inequivoca esplicitazione della volontà delle parti in tal senso – perché solo per il fondo V. i contraenti avrebbero convenuto su un diverso criterio di valore da imporre al consulente rispetto a quello da utilizzare per gli altri immobili compresi nella massa, diverso anche dal restanti beni che, al pari di quello, erano già stati trasferiti ad altri coeredi prima dell’apertura della successione, con l’effetto di alterare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condivldenti. Né c’era motivo per decidere di adottare per ll solo fondo V., che pur risultava reso in natura alla massa, il criterio fissato dall’art. 747 c.c. con riguardo alla cosiddetta “collazione per imputazione”, stlmando unicamente quell’immobile secondo il valore dell’apertura della successione.
I.2. E’ infondato pure il quinto motivo del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C., sempre ipotizzato come violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. La Corte d’Appello ha accolto l’appello incidentale di Antonietta S. C. e perciò ridotto la condanna della stessa a rimborsare  agli altri condividenti i frutti per il possesso di alcuni beni immobili, ritenendo che fosse legittimo il possesso esclusivo che Antonietta S. C. e i suoi danti causa avevano avuto degli immobili loro attribuiti a titolo transattivo dalla scrittura, e perciò nulla dovesse restituire la medesima Antonietta S. C. a titolo di frutti. I ricorrenti principali negano che le espressioni verbali adoperate dalle parti rivelassero l’intenzione di attribuire un possesso attuale, rimettendosi comunque l’effetto definitivo ad un atto pubblico di divisione o ad una sentenza.
Ora, è evidente che anche una scrittura privata può rivestire efficacia reale traslativa della proprietà di un bene immobile in virtù del consenso legittimamente manifestato dalle parti, seppur le stesse prevedano che debba seguire l’atto pubblico (o la sentenza) ai fini della trascrizione e dell’opponibilità ai terzi. La Corte di Palermo ha inteso, con apprezzamento di fatto che non collide con l’art. 1362 c.c., né rivela alcuna illogicità, che l’atto transattivo del 29 aprile 1950 avesse importato altresì un immediato trasferimento dei diritti immobiliari sugli appartamenti di via Principe Scordia e di via Guardione. Secondo tale ricostruzione della volontà pattizia accertata dai giudici di merito (in base ad un’interpretazione del testo convenzionale che, ancora una volta, seppur non sia l’unica possibile, non è perciò solo sindacabile in sede di legittimità soltanto proponendone altra più gradita alla parte), per questi beni la scrittura del 1950 aveva attuato lo scioglimento parziale della comunione incidentale ereditaria, e quindi si poneva come fonte autonoma regolatrice del rapporto in luogo del titolo giuridico preesistente di comunione. Non sussisteva, perciò, per le unità immobiliari site tra via Principe Scordia e via Guardione di Palermo, un godimento esclusivo di cose comuni esercitato da un partecipante alla comunione con il consenso degli altri (caso in cui il detto partecipante si deve qualificare mandatario, per mandato espresso o tacito, degli altri comunisti con i correlativi diritti ed obblighi, compreso quello di rendere il conto dei frutti percetti: cfr. Cass. Sez. 2, 27/04/1991, n. 4633; Cass. Sez. 2, 17/05/1972, n. 1496), quanto un possesso sorretto da un titolo giustificativo dell’autonomo acquisto della proprietà, il che è ragione sufficiente per negare l’obbligazione alla corresponsione dei frutti civili agli altri condividenti, quale ristoro della privazione del loro godimento pro quota.
II. Il primo motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S. censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1, c.c., invocando genericamente tale norma come regola per l’interpretazione della scrittura del 29 aprile 1950, ma poi, nell’esposizione del motivo, in realtà contesta alla Corte di Appello di Palermo il valore assegnato al fondo “C.” sulla base delle risultanze della CTU. Viene riportato uno stralcio della comparsa conclusionale del 20 maggio 2014, dove si discute della “extra quota” di “salme 8 di terreno” attribuite nella scrittura del 1950.
Il secondo motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S. è strutturato in modo molto simile al primo motivo. Si lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1, c.c., con riferimento alla scrittura del 29 aprile 1950, si ricorda come la stessa scrittura al punto 4, co. 1, vincolasse il consulente a “tenere conto delle diverse qualità e capacità produttive dei vari fondi”, e poi, nell’esposizione della censura, in realtà si critica la decisione della Corte di Appello di Palermo per la valutazione data al fondo agricolo “B.”, sempre trascrivendo uno stralcio della comparsa conclusionale del 20 maggio 2014.
Il terzo motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S. allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1, e dell’art. 727 c.c. c.c. Si richiama di nuovo il punto 4, co. 1, della scrittura del 29 aprile 1950, che obbligava il consulente tecnico a “tenere conto delle diverse qualità e capacità produttive dei vari fondi”, ci si riporta a passi della comparsa conclusionale d’appello, si contesta alla sentenza impugnata di essersi basata, in realtà, sulla destinazione urbanistica dei fondi, nonché di aver assegnato al ricorrente incidentale tutti i fondi rustici di minima estensione e di infimo valore, di esclusiva qualità di pascolo, alcuni addirittura confinanti con il Cimitero di Caltavuturo e soggetti a vincolo.
Il quarto motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S. allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1, c.c. Viene censurata la parte della sentenza d’appello inerente alle “fruttificazioni dei fondi rustici e dei fabbricati urbani”, per le sovvenzioni AIMA-AGEA, ritenute non dimostrate, e la percentuale del 5% dei costi di gestione immobiliare, considerata dai CTU a pagina 17 della relazione di chiarimenti. Vengono richiamati stralci di un’ordinanza del Tribunale di Termini Imerese del 9 ottobre 2006, nonché della comparsa conclusionale del 20 maggio 2014, e si fa riferimento a cento bovini e quattrocento ovini rinvenuti dai consulenti sui fondi agricoli, per inferirne l’erroneità delle fruttificazioni dei beni dal 1948 al 2008. Quindi si discute della cappella gentilizia sita nel Cimitero di Caltavuturo, ritenuta dalla Corte d’Appello di Palermo bene “per sua natura destinato a una comune fruizione”, e che invece per il ricorrente incidentale va divisa.
Il quinto motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S. è sempre rubricato come violazione e falsa applicazione dell”art. 1362, comma 1, c.c., ma poi espone nel suo contenuto l’omesso esame di un fatto decisivo, che si sostanzierebbe nell’errore di pagina 19 di sentenza, ove si è affermato che non fosse controverso il comune possesso dei fondi rustici, e perciò non dovuta la fruttificazione. Il ricorrente Liborio D. S. oppone che il possesso di tutti i fondi, sia rustici che urbani, fu tenuto soltanto dapprima da Ignazio ed Antonina C. e poi da Antonietta S. C. La censura riferisce quindi della ordinanza del Tribunale di Termini Imerese del 9 ottobre 2006. Da ultimo, il sesto motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S. è sempre rubricato come violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, comma 1, c.c., e contesta la riduzione disposta in appello della condanna al rimborso dei frutti percepiti da Antonietta S. C., stimati nella somma di € 10.692,00, oltre interessi, in favore di ciascuno dei condividenti Fabrizio Luigi G., Giuseppina C. e Liborio D. S., in luogo dell’importo di € 107.317,41 quantificato dal Tribunale. Questo motivo ha contenuto analogo al quinto motivo del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C.
II.1. I sei motivi del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S., che vanno trattati congiuntamente per la loro connessione, rivelano tutti profili di inammissibilità e sono comunque infondati.
Essi recano in rubrica costantemente il riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. ed alla violazione dell’art. 1362 c.c., ma nella sostanza non denunciano il mancato rispetto dell’astratta regola di legge nell’interpretazione del contratto, da operare alla stregua della comune volontà dei contraenti, ricostruita sulla base del senso letterale delle espressioni usate e della ratio del precetto negoziale, proponendosi, piuttosto, di criticare il risultato delle operazioni divisionali cui la Corte d’Appello è pervenuta nel dare attuazione all’accordo del 29 aprile 1950, così reinvestendo questa Corte del giudizio di fatto, invece riservato al giudice di merito.
I sei motivi del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S., inoltre, nell’esporre le ragioni dell’impugnazione, contengono frequenti trascrizioni o rinvii inerenti ad allegazioni difensive inserite negli atti del giudizio di merito (in particolare, la comparsa conclusionale d’appello del 20 maggio 2014), ovvero a provvedimenti ordinatori resi dal Tribunale di Termini Imerese nel giudizio di primo grado, e ciò in spregio del requisito di specificità e di riferibilità al provvedimento impugnato che devono rivestire i motivi del ricorso per cassazione, in forza dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
E’ quindi evidente come esulano del tutto dal profilo delle denunciate violazioni dell’art. 1362 c.c. le doglianze circa il valore assegnato al fondo “C.” o al fondo “B.” sulla base delle espletate CTU, ovvero circa la mancata considerazione “delle diverse qualità e capacità produttive dei vari fondi”, o, ancora, quanto all’attribuzione al ricorrente incidentale di fondi rustici di minima estensione e di infimo valore, o quanto al calcolo delle “fruttificazioni dei fondi rustici e dei fabbricati urbani”, o alla divisibilità della cappella gentilizia, o, per concludere, quanto al possesso dei fondi rustici tenuto soltanto dapprima da Ignazio ed Antonina C. e poi da Antonietta S. C.
La maggior parte di queste ragioni di critica sarebbero state denunciabili per cassazione unicamente quali vizi di omesso esame di fatto decisivo e controverso, ovvero ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo attualmente vigente, all’esito delle modiche apportate dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012. Anche in tale ambito, tuttavia, il ricorrente incidentale avrebbe dovuto riferirsi, nel rispetto formale delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., a fatti la cui esistenza risultasse dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che avessero costituito oggetto di discussione tra le parti e ad avessero carattere decisivo (vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia) (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Il ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S., invece, denuncia a questa Corte l`omesso esame di elementi istruttori, il quale di per sé, neppure integra il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La Corte d’Appello di Palermo ha analizzato e risposto (alle pagine da 16 a 19 di sentenza) ai motivi dell’appello di Liborio D. S., facendo, fra l’altro, rinvio per la stima dei beni alle emergenze peritali, motivando le ragioni per cui riteneva inattendibili i valori di estimo proposti dal Di Salvo per gli immobili urbani di Palermo, negando la prova delle sovvenzioni AIMA-AGEA ai fini della quantificazione dei frutti percetti, come del possesso esclusivo dei fondi rustici, affermando la necessità della comune fruizione della cappella gentilizia per sua natura.
Costituiscono, peraltro, interpretazioni consolidate in giurisprudenza quella secondo cui nella divisione ereditaria, così come nella divisione delle cose in comunione, non si richiede necessariamente in sede di formazione delle porzioni una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo nell’ambito di ciascuna categoria di beni, immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie dei beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria (ad esempio quella degli immobili), ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, dei mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Di tal che, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, spetta al giudice del merito accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio (cfr. ad esempio Cass. Sez. 2, 06/12/2013, n. 27405).
E così pure la scelta del criterio tecnico da utilizzare in ciascuna fattispecie per determinare il valore venale delle varie quote e dei singoli beni che formano oggetto della divisione, a norma dell’art. 726 c.c., con riguardo alla natura, ubicazione, consistenza e possibile utilizzazione di ciascun bene, tenuto conto anche delle condizioni di mercato, rientra nell’esclusivo potere del giudice del merito, salvo il controllo di fatto in sede di legittimità nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 12/05/1979, n. 2747; Cass. Sez. 2, 10/11/1980, n. 6035). Tale stima, una volta acquisita al processo mediante consulenza tecnica ed assunta ed assorbita nella sentenza che delinea l’operazione divisionale, non può certamente essere censurata in sede di legittimità contrapponendovi, come fa il ricorrente incidentale, difformità tra la valutazione del perito e le argomentazioni difensive della parte.
Quanto alla cappella gentilizia sita nel cimitero di Caltavuturo (bene che la Corte d’Appello ha definito per sua natura destinato ad una comune fruizione), l’individuazione della natura di una cappella funeraria come sepolcro familiare o gentilizio, e non ereditario (pur autonomo e distinto rispetto al diritto reale sul manufatto), perciò sottratto a possibilità di divisione, costituisce comunque apprezzamento di mero fatto non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, al di fuori del vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 29/01/2007, n. 1789).
Il sesto motivo del ricorso incidentale dell’avvocato Liborio D. S., in particolare, relativo alla riduzione disposta in appello della condanna al rimborso dei frutti percepiti da Antonietta S. C., trova le ragioni della sua infondatezza in quanto già sopra illustrato a proposito dell’analogo quinto motivo del ricorso di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C.
III. L’unico motivo del ricorso incidentale di Antonietta S. C. deduce la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., 1362, comma 2, e 1363 c.c. Si fa riferimento alla scrittura privata del 12 maggio 1987 intercorsa tra i fratelli Michelangelo ed Ignazio C., recante l’obbligo assunto dal primo di vendere al secondo la quota dei beni mobili ed immobili che sarebbe stata attribuita a Michelangelo in esito ai giudizi pendenti dinanzi al Tribunale di Termini Imerese, con esclusione del fondo V. e di un appartamento in Palermo. Con la comparsa di risposta del 26 settembre 2002 Antonietta S. C., erede di Ignazio C., aveva così domandato che le venissero “assegnate le quote ereditarie dei germani Antonina, Michelangelo ed Ignazio C.” (ovvero la quota di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C., eredi di Michelangelo C.). In proposito, la Corte d’Appello ha affermato che non risultava ritualmente formulata domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre con riferimento al preliminare di vendita del 12 maggio 1987, non appalesandosi univoca la domanda di attribuzione della quota proposta nella comparsa di risposta da Antonietta S. C.
III.1. Anche il ricorso incidentale di Antonietta S. C. è infondato.
L’indagine diretta all”individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, se motivato avendo riguardo all’intero contesto dell’atto, e tenendo conto della sua formulazione letterale nonché del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire.
Ciò premesso, non è censurabile la decisione della Corte d’Appello di Palermo, la quale ha ritenuto non ritualmente formulata la domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre con riferimento al preliminare di vendita del 12 maggio 1987, a fronte della richiesta, contenuta nella comparsa di risposta di Antonietta S. C., che le venissero “assegnate le quote ereditarie dei germani Antonina, Michelangelo ed Ignazio C.”, in quanto la domanda, così spiegata, di assegnazione delle quote spettanti ad altri coeredi suppone a suo fondamento la deduzione dell’avvenuta cessione  delle quote indivise dei beni ereditari, mentre la richiesta di pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c. può trovare giustificazione nell’esplicita allegazione di un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l’obbligo delle parti di addivenire ad un futuro contratto definitivo di alienazione delle quote.
IV. Vengono quindi rigettati sia il ricorso principale di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C., che i ricorsi incidentali di S. Liborio e di Antonietta S. C.
In ragione della reciproca soccombenza, si compensano tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti principali Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C., come dei ricorrenti incidentali S. Liborio e Antonietta S. C., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le rispettive impugnazioni integralmente rigettate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale di Fabrizio Pierluigi G. e Giuseppina C., rigetta i ricorsi incidentali di S. Liborio e di Antonietta S. C. e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 febbraio 2018.
Il Consigliere estensore Dott. Antonio Scarpa

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Sereno Scolaro

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