Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 5911

Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 5911

MASSIMA
Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 5911

Il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici. Tale vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale. Il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti. La situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quinto comma e l’art. 338, comma 5 T.U.LL.SS., r.d. 25/7/1934, n. 1235 e s.m., non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un’area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura.

NORME CORRELATE

Art. 338 R.D. 25/7/1934, n. 1265

Pubblicato il 15/10/2018
N. 05911/2018REG.PROV.COLL.
N. 03321/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3321 del 2012, proposto da:
ARMANDO M., rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi Cocchi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Corbyons in Roma, via Maria Cristina, n. 2;
contro
COMUNE DI GENOVA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gabriele Pafundi e Aurelio Domenico Masuelli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14a/4;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. Liguria – Genova – Sez. n. 1938 del 2011;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Genova;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza smaltimento del giorno 25 settembre 2018 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Giovanni Corbyons, in dichiarata delega dell’avvocato Luigi Cocchi, e Gabriele Pafundi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.– L’odierno appellante, signor Armando M., premette che:
– in data 21 luglio 2000, acquistava dal signor Roberto B. un’unità immobiliare, sita in via S. Ilario n. 102 / B, posta su due piani e facente parte di un maggior edificio contraddistinto al civico n. 104 della stessa via;
– per questo immobile, il precedente proprietario aveva presentato istanze di condono con riguardo ai locali abitabili realizzati nel volume al di sotto del terrazzo e manufatti accessori;
– le opere abusive consistevano nella trasformazione della preesistente tettoia-pergolato in veranda a sud-ovest del giardino di pertinenza, nell’installazione di tenda da sole su struttura fissa in lega leggera, nell’installazione di un manufatto in legno appoggiato al suolo quale accessorio dell’unità principale;
– tali opere sono tutte soggette a vincolo di inedificabilità, in quanto ubicate nella fascia di rispetto cimiteriale (e realizzate dopo l’apposizione del vincolo sulla medesima area);
– in data 21 dice 1995 n. 2800, il Comune di Genova respingeva tale istanza di condono;
– il precedente proprietario, signor B. Roberto, impugnava il cennato provvedimento di reiezione
– l’appellante, divenuto proprietario dell’immobile, richiedeva il riesame di condono presentato dal precedente proprietario (sulla base delle novità introdotte dalla legge n. 166 del 2002 all’art. 338 del t.u.l.s.), ma anche questa istanza veniva respinta con provvedimento del 4 aprile 2003 n. 2157;
1.1.– Il signor Armando M. impugnava il provvedimento da ultimo citato, ponendo a fondamento dell’impugnativa i seguenti motivi: la violazione degli artt. 31, 32, 33, della legge n. 47 del 1985, in relazione all’art. 338 del t.u.l.s., e all’art. 7 della legge n. 1497 del 1939; la violazione dell’art. 48 norme tecniche di attuazione del PTCP; l’eccesso di potere sotto vali profili (per falsità dei presupposti, travisamento, difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e contraddittorietà).
2.– Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, con sentenza n. 1938 del 2011:
– ha dichiarato improcedibile il ricorso n. 343 del 1996 (promosso avverso il provvedimento del 21 dicembre 1995, con cui era stata respinta l’istanza di condono limitatamente alla realizzazione di un veranda e all’installazione di una manufatto in legno in quanto opere ricadenti nell’ambito del vincolo cimiteriale), in quanto il sopravvenuto provvedimento 4 aprile 2003 n. 2157 deve essere qualificato come conferma propria dell’originario diniego, onde, da un lato, l’onere di una nuova impugnativa e dall’altro il venir meno dell’interesse alla decisione del ricorso avverso il provvedimento confermato;
– ha altresì respinto il ricorso n. 758 del 1996, promosso avverso il sopravvenuto provvedimento 4 aprile 2003 n. 2157.
3.‒ Avverso la sentenza del T.a.r. ha promosso appello il signor Armando M., chiedendone la riforma.
L’appellante, con un primo ordine di censure, afferma che: – il presupposto, su cui il provvedimento di diniego si fondava (il superamento del 10% del volume della unità abitativa del ricorrente) non era stato oggetto di specifico accertamento e di puntuale motivazione; – l’art. 338 del t.u.l.s. andava comunque riferito al volume dell’intero edificio non dell’unità immobiliare.
Contesta altresì: il parere della SCEI in relazione al manufatto in legno, ritenendo che lo stesso non si trova in una posizione percepibile all’estero e non può costituire elemento comportante alcun impatto visivo con riguardo alle visuali esterne; nonché l’assunto dell’Amministrazione secondo cui la veranda costituirebbe un elemento di contrasto formale architettonico e tipologico con riferimento all’edificio originario e all’ambito paesistico.
Aggiunge che l’opera in esame sarebbe compatibile anche con il regime normativo della zona PTCP IS-CE in cui l’edificio è ricompreso.
4.‒ Il Comune di Genova si è costituito in giudizio, chiedendo che l’appello venga dichiarato inammissibile o comunque respinto.
5.‒ All’udienza del 25 settembre 2018, la causa è stata discussa e trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.‒ L’appello è infondato.
2.‒ Va innanzitutto considerato che l’ordine demolitorio trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che prescrive il vincolo c.d. “cimiteriale”.
Come è noto, nel caso in cui il provvedimento impugnato si fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice, qualora registri l’infondatezza delle censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso, idoneo, di per sé, a comprovarne la legittimità e a sostenerne il dispositivo, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, in quanto la conservazione dell’atto implica la perdita di interesse del ricorrente all’esame delle altre doglianze.
3.– L’art, 338 del regio-decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), prevede che:
«I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni dal seppellimento dell’ultima salma.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa fino a lire 200.000 e deve inoltre, a sue spese, demolire l’edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Al fine dell’acquisizione del parere della competente azienda sanitaria locale, previsto dal presente articolo, decorsi inutilmente due mesi dalla richiesta, il parere si ritiene espresso favorevolmente.
All’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell’articolo 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457
» (comma quest’ultimo così sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della legge 1 agosto 2002, n. 166).
3.1.– La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è nel senso che:
– il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
– il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2016, n. 949);
– il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5544);
– la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quinto comma;
– l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un’area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
– il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 4 luglio 2014, n. 3410; sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
4.– Su questa premessa ricostruttiva, la doglianza del ricorrente, secondo cui il limite della percentuale di ampliamento (prescritta dall’ultimo comma dell’art. 338 del t.u.l.s.) dovrebbe essere riferita all’intero edifico e non già alla singola unità abitativa, non può essere accolta, sia pure con le seguenti precisazioni rispetto a quanto affermato dal giudice di prime cure.
La disposizione invocata ricollega il limite percentuale della facoltà di ampliamento all’edificio nel suo complesso.
Tuttavia, per evitare facili elusioni della suddetta prescrizione – segnatamente: in caso di proprietà divisa, ove fosse consentito a ciascun proprietario di realizzare sulla singola unità abitativa l’incremento percentuale assoluto, si otterrebbe il risultato o di ammettere, in relazione all’edificio, complessivamente considerato, un ampliamento eccedente la percentuale ammessa, ovvero di privare gli altri proprietari di analoga facoltà – deve ritenersi che il singolo condomino sia legittimato a chiedere l’ampliamento volumetrico nei soli limiti percentuali calcolati in relazione alle dimensioni della propria unità immobiliare.
Restano, tuttavia, salve le ipotesi (nessuna delle quali ricorrenti nel caso in esame) in cui: l’istanza sia proposta congiuntamente da tutti i proprietari, con progetto relativo all’intero immobile; ovvero, il singolo condomino corredi la propria istanza con un atto d’obbligo degli altri comproprietari (si osserva che l’atto d’obbligo, tradizionalmente qualificato in termini di servitù obbligatoria, dovrebbe oggi integrare la fattispecie, ora prevista dall’art. 2643, n. 2-bis, c.c., di contratto che trasferisce o modifica i «diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale»).
5.– Con altro motivo, l’appellante lamenta che l’Amministrazione non avrebbe assolto l’onere di provare il superamento del limite volumetrico percentuale.
Anche questa censura va respinta.
5.1.– Sono necessari alcuni spunti preliminari.
Il codice del processo amministrativo, al fine di dare continuità ad un modello processuale ispirato all’agilità delle forme piuttosto che al modello civilistico di giudizio a cognizione piena contraddistinto dalla predeterminazione legale di forme, termini e poteri delle parti, non ha introdotto un’autonoma fase di istruzione della causa, mantenendo fermo il principio di concentrazione dei poteri istruttori e decisori (pur con l’importante innovazione rappresentata dall’unificazione delle regole istruttorie per la giurisdizione di legittimità, esclusiva e di merito). Tuttavia, non può dirsi che il codice abbia svolto, nella specifica materia, un ruolo di mera canonizzazione dei risultati consolidati in giurisprudenza.
Per quanto permanga un assai ampio potere di intervento del giudice sul materiale di fatto introdotto dalle parti nel processo, non sembra che la formula del metodo acquisitivo nella formazione del materiale probatorio continui a connotare, negli stessi termini, il processo amministrativo. Il codice, in particolare, sembra definire, con maggiore precisione che in passato, l’oggetto ed il ruolo dei poteri ufficiosi.
Sotto il primo profilo, se l’introduzione dei fatti principali (per tale intendendosi quelli “posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”) è opera esclusiva delle parti (art. 64, I comma, c.p.a.), sembra conseguirne che il Giudice non possa spingersi alla verifica di fatti, che pure gli appaiono rilevanti ai fini del decidere, se non dedotti dalle parti, salvo che si tratti di fatti “secondari” (ovvero dedotti in funzione esclusivamente probatoria): è, dunque, alla ricerca dei fatti allegati dalle parti, che il Giudice “può chiedere alle parti anche d’ufficio chiarimenti o documenti” (art. 63, I comma, c.p.a.), “anche d’ufficio, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio i documenti o quanto altro ritenga necessario” (art. 63, II comma, c.p.a.), oppure “disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione” (art. 64, III comma, c.p.a.).
Non sembra poi che, all’onere dell’introduzione della parte consegua automaticamente (come postula il metodo acquisitivo nella sua classica formulazione), il dovere di acquisizione del giudice semplicemente perché ne è stato offerto un principio di prova. Il richiamo del principio dell’onere della prova (articoli 63, I comma, e 64, I comma), a questo riguardo, sembra introdurre al riguardo un duplice limite.
In primo luogo, il principio dispositivo è mitigato dal metodo acquisitivo soltanto in relazione all’effettiva indisponibilità dei mezzi di prova.
Inoltre, sembra doversi inferire che i poteri di ufficio sono preordinati essenzialmente ad evitare la meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova. In altre parole, il contemperamento del principio dispositivo sia con le esigenze di equilibrare la posizione della parte privata sia con la necessità di ricercare la verità materiale (stante l’estrema rilevanza pubblica delle questioni trattate), sembrerebbe essere stato predefinito dal legislatore nel senso che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, possa e debba disporre d’ufficio gli atti istruttori (“sollecitati” dal materiale acquisito), onde superare l’incertezza dei fatti in contestazione.
In definitiva, nella prospettiva segnalata, i poteri istruttori non potrebbero essere esercitati, non soltanto sulla base del sapere privato del giudice, ma anche con riferimento a fatti non allegati dalle parti, non acquisiti al processo in modo rituale, nonché contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova; del pari, in presenza di una prova piena già acquisita, non potrebbe il Giudice d’ufficio ammettere una prova diretta a sminuirne la pregnanza.
5.2.– Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha prodotto in giudizio gli atti con i quali i competenti uffici hanno dato conto del fatto che l’abuso realizzato supera il limite percentuale indicato dall’art. 338 del t.ul.s. (cfr. doc. n. 5).
A ciò si aggiunge che, nella stessa domanda di sanatoria, viene dichiarato che la superficie degli abusi realizzati ammonta a 30,77 mq mentre l’abitazione a cui è annesso l’opera oggetto di sanatoria ha una superficie di 62,00 mq. (cfr. doc. n. 14).
L’appellante ‒ nonostante che la dimensione degli abusi realizzati non riguardi un “fatto” nella disponibilità esclusiva dell’Amministrazione (il cui assunto, anzi, si basa in larga parte sulla documentazione tecnica prodotta dall’istante) ‒ non ha fornito alcun principio di prova a supporto delle proprie contrarie affermazioni.
6.‒ Le spese del secondo grado di giudizio possono compensarsi atteso il carattere risalente della controversia.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa interamente le spese di lite tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 settembre 2018 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro, Presidente
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Davide Ponte, Consigliere
L’ESTENSORE (Dario Simeoli)
IL PRESIDENTE (Sergio Santoro)
IL SEGRETARIO

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Sereno Scolaro

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