La tracciabilità delle ceneri può essere motivo di business?

Sull’Huffington Post italiano del 30 ottobre 2012 un articolo dal titolo “La pubblicità choc della cremazione” di Dario Morelli (Esperto di diritto ecclesiastico e dei media) mette i piedi direttamente nel piatto. Attacca la infelice pubblicità fatta da una nota impresa funebre romana che insinua nei lettori il dubbio che nell’urna cineraria non vi siano le ceneri del loro caro e, conseguentemente, induce ad acquistare il mezzo per “garantorsi”. Ma è veramente necessario quel mezzo o bastano le procedure già previste dalla norma? Noi optiamo per la seconda, delle due.

Di seguito riportiamo l’articolo, che non mancherà di far discutere:

ImageIl cartellone che vedete, fotografato in una stazione romana della metro, pone una domanda da brivido: di chi sono le ceneri nell’urna che ti sei messo in salotto? Dell’adorata mammina o di un estraneo a caso che ti è stato rifilato dall’impresa di pompe funebri? Nel dubbio atroce, il claim suggerisce di affidarsi all’agenzia pubblicizzata.

È ovvio che la pubblicità di una società che offre servizi nel settore funebre (o funeral services, come recita il cartellone) debba per forza riguardare il tema della morte. Ma siccome ” l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della morte esprime uno di quei sentimenti ancestrali che segnano in profondità una civiltà e l’individualità di ciascuno”, è altrettanto chiaro che l’argomento richieda piedi di piombo e guanti di velluto. Infatti poche altre pubblicità come quella di un, diciamo così, “funeral services provider” sono in grado di tirare in ballo direttamente il valore della dignità della persona e incidere sulle convinzioni morali, civili e religiose di pressoché tutti i cittadini, atei, credenti, agnostici o indifferenti che siano.

In questo senso, il cartellone della foto non sembra proprio tra i più “delicati”.

Innanzi tutto perché, da un punto di vista strettamente commerciale, pare denigrare la concorrenza e sfruttare la paura dei consumatori (e i consumatori di servizi funebri, si sa, sono persone già di per sé con i nervi a fior di pelle). Viene insinuato infatti – senza alcuna ironia né intento parodistico – che il settore delle pompe funebri sia popolato da cialtroni che non mettono nel loro lavoro quella cura minima che li porterebbe, quantomeno, a consegnarti il morto giusto; e se a denunciarlo pubblicamente è una società che lavora proprio in quel settore, il consumatore ha di che farsi prendere dal panico.

In secondo luogo perché sull’urna campeggia una croce latina.

Tradizionalmente la Chiesa cattolica ha sempre condannato la cremazione (lapidario, in questo senso, il canone 1203 del vecchio Codice di Diritto Canonico: “i corpi dei fedeli defunti devono essere seppelliti, la loro cremazione è disapprovata”), e solo in tempi relativamente recenti ha dato il suo sì, ma a determinate condizioni. Tra queste, come chiarito dal nuovo “Rito delle esequie” approvato dalla Cei, che entra in vigore giusto giusto il 2 novembre prossimo, c’è il divieto di conservare le ceneri in casa.

Dato che, viceversa, il diritto italiano consente di affidare le ceneri ai familiari, nel rispetto della volontà espressa dal defunto, se nell’urna della pubblicità non ci fosse stata una croce non si sarebbe posto nessun problema strettamente religioso. Ma così com’è, forse la Chiesa cattolica italiana avrebbe qualche ragione di lamentarsi dell’uso commerciale di quel simbolo in connessione a una pratica che lei considera sacrilega. In questo senso, il Giurì, che è l’organo giudicante dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, potrebbe ritenere la pubblicità del funeral services provider lesiva delle convinzioni religiose dei cittadini cattolici.

Volendo però spaccare il capello in quattro, come è giusto fare con le cose giuridiche, si può controbattere che la croce della pubblicità non è un crocifisso, e la differenza non è irrilevante. Mentre infatti il crocifisso, che include la figura di Gesù, è un’icona riferita a uno specifico fatto storico ed è inequivocabilmente riferibile al cattolicesimo, la croce è un “‘simbolo’ in senso peirciano” che rinvia “per convenzione ad un insieme di significati tutti riconducibili ad un concetto, massimamente comprensivo, di ‘cristianità'”. E siccome nel vastissimo mondo cristiano non tutti, come i cattolici, sono contrari alla conservazione delle ceneri in casa (vedi ad esempio gli anglicani), si potrebbe sostenere che nessuna offesa sia arrecata direttamente al culto cattolico.

Ma i problemi in realtà non finiscono qui.

Anche i cittadini non cattolici e non cristiani, che scendono in metropolitana la mattina presto per andare incontro alla loro sporca giornata e si trovano davanti un’urna funeraria, piazzata su un camino come un oggetto di arredamento, tra un orologio da tavolo e una pianta ornamentale, per giunta piena delle ceneri di un morto estraneo, rischiano di infastidirsi un po’.

La giurisprudenza del Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria è ricca di esempi di pubblicità censurate perché ritenute in qualche modo irrispettose nel trattare il tema della morte, e perciò contrarie al Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale. Faccio giusto due esempi significativi:

1) EASTPAK (anno 2000): “Il messaggio mostrava una distesa a perdita d’occhio di zainetti, con in vista il marchio “Eastpak”, disposti in un prato ben curato, in un’atmosfera plumbea. Sulla destra, in fondo, si stagliava un’architettura di tipo funerario, mentre in basso si riportava, oltre al marchio dell’inserzionista, la scritta “built to resist” (“fatti per resistere”). La regolare disposizione degli zainetti, nonché la visione di scorcio tipicamente funerario, inducevano il pubblico a evocare l’immagine di un cimitero, gremito di lapidi uguali (in realtà gli zainetti), quasi fosse un luogo di inumazione di morti in guerra”. Il Giurì ritenne che “lo sfruttamento del tema della morte, che coinvolge le convinzioni profonde del pubblico dei consumatori, è ingiustificato per richiamare l’attenzione sulla durata nel tempo dei prodotti offerti”;

2) STENFOOT (anno 1997): “Lo spot mostra il cadavere di un giovane, vestito per l’inumazione, al quale una donna, porgendo l’ultimo saluto, sfila dai piedi le scarpe; lo spot si conclude con il super ‘Fatte per essere usate'”. Il Giurì ritenne che “la sepoltura, elemento che mette in causa il culto dei morti, viene rappresentata in un modo realistico che può risultare offensivo per chi ha da poco subito un lutto e per chi attribuisce valore sacrale alla conclusione della vita e all’inumazione”.

Insomma, il rapporto tra la “comare secca” e la pubblicità è sempre stato problematico.

Forse c’entra anche il fatto che, come sosteneva già quarant’anni fa lo storico Philippe Ariès, parafrasato da Paolo Cavana, nella civiltà occidentale la pubblicità commerciale è il “principale araldo” della “necessità di essere felici, [del] dovere morale e [del]l’obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva”, ed è dunque l’ambito in cui si estrinseca maggiormente quella tipica fuga occidentale dalla morte che esprime “il senso insuperabile di angoscia e di vuoto che l’uomo contemporaneo avverte” di fronte a essa.

Personalmente ritengo che questo non possa far pensare che esistano settori imprenditoriali – come quello delle pompe funebri – ontologicamente incompatibili con la comunicazione pubblicitaria. Credo che chi vende legittimamente qualcosa debba avere il diritto di rivolgersi ai potenziali clienti per presentare la propria offerta. Ma se il tuo business consiste nel maneggiare i morti, forse il piede sull’acceleratore della provocazione potresti anche non metterlo.

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